Luca
Carboni, ritratto in concerto Musica, politica, famiglia: il cantautore
bolognese si racconta. E stasera arriva sul palco del Verdi col suo
ultimo album
"Le mie canzoni in cerca di verità"
FULVIO PALOSCIA
Ha 17 anni di carriera dietro le spalle, eppure non si notano. Anche
se i capelli non sono più folti e neri come una volta, anche se il
volto si è appesantito e ora porta i segni della maturità, la voce
è sempre la stessa, medesimo il clima delle canzoni. Eppure, per vie
traverse e sottili, Luca Carboni ha compiuto un suo cammino dando
di volta in volta pennellate diverse alle sue storie di vita vissuta
e di piccoli amori: quella un po' vascorossiana degli esordi, quella
elettronica degli anni Novanta e ora quella dell'essenzialità, dei
suoni puri. E forse sarà per questo muoversi pur restando immobili,
che le canzoni di Carboni (stasera dal vivo al Verdi, ore 20.45, biglietti
dai 18 ai 28 euro) sono ormai diventati dei classici, «le canzoni
per rimanere devono sapere intuire dei pensieri che girano nell'aria,
devono saper toccare nel profondo e diventare un simbolo di un momento
storico, di un tempo: io sono riuscito a farlo, ed eccole ancora qui,
vive e scalcianti come una volta, perché forse hanno davvero toccato
idee e sentimenti che sono difficilmente deperibili. Questo non esserci
un Carboni pre e un Carboni post - racconta il cantautore bolognese
- mi ha permesso di congegnare un concerto dove il vecchio e il nuovo
si mescolano senza soluzione di continuità».
Eppure, mai come stavolta, con l'album Luca, Carboni ha raccontato
la sua vita, mai suo disco fu più autobiografico di questo: «A quarant'anni
ho sentito il bisogno di raccontare il mio passaggio da ragazzo ad
adulto, raccontare il trascorrere del tempo visto da chi ha la mia
età: la scoperta più bella del diventare davvero uomo è stata la reale
autonomia. Adesso non dipendo più davvero da nessuno, riesco a non
farmi condizionare dall'esterno, mi sento un macigno. Però c'è anche
la paura di perdere certi entusiasmi, di smettere di sperare e di
sognare: mi sento forte ma sull'orlo del precipizio della piccolezza
e della sterilità». Crescendo, si ha voglia di più sincerità, si vuole
la verità sulla vita, sull'amore, sulle cose del mondo: «Il senso
di Mi ami davvero è proprio questo: la parola davvero è una richiesta
di certezza in un mondo dove tutto è sempre più immateriale, dove
le icone sconfiggono la sostanza, dove il virtuale è invadente. L'informazione
ci confonde, è un po' come quando è nata l'automobile: all'inizio
sembrava di volare, poi è diventata una prigione. La nascita di mio
figlio, il rapporto che ho con lui ha fatto nascere questo bisogno
di autenticità».
Le piace l'Italia di oggi? «No. Da buon bolognese nato in una famiglia
con cinque figli, sono cresciuto con un'idea sana e proletaria della
politica: quindi, sono profondamente deluso da questo asservimento
al mercato. La politica non impone più regole al mercato, ma è al
suo servizio, e questo sta producendo un consumismo sfrenato. Tutto
ciò mi preoccupa, mi fa riflettere e mi fa scrivere: non l'accetterò
passivamente». Poi c'è la società: i figli uccidono i padri e viceversa
«ma non me la sento davvero di ergere Erika e Omar o il caso di Cogne
- se davvero è stata la madre ad uccidere Samuele - a segno dei tempi.
Una cosa è certa: quando io ero bambino, la famiglia era più stretta,
più vicina. Oggi i bambini sono più isolati, soprattutto se i genitori
lavorano: rischiano, insomma, di non essere amati con sistematicità».
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